Qualche parola sull’insegnamento della Medicina

Svolgo ancora oggi, dopo essere stato per molti anni direttore, in Parma, dell’Istituto di Istologia della Facoltà di Medicina, un seminario agli studenti del I anno incentrato sulla biologia dello sviluppo. Per il resto sono totalmente estraneo alle dinamiche della Facoltà. Mi trovo quindi nella felice condizione di poter esprimere un giudizio libero e capace di cogliere i mutamenti perché affrancato sia da interessi personali, sia da quella sorta di sopore che nasce dal coinvolgimento rutinario.

Aggiungo che tuttora svolgo un’attività medica in qualità di ginecologo libero professionista, per cui ho ben presente anche gli aspetti pratici della professione.

 

Ebbene, la mia esperienza è a dir poco sconvolgente perché di anno in anno vedo sempre più precipitare l’attenzione e l’interesse per le discipline biomediche formative, quali l’istologia, la biochimica, l’anatomia e la fisiologia, che infatti oggi sono fortemente erose nei tempi e nella consistenza essendo confinate in poco più di due anni di corso, quando fino a non molti anni fa occupavano un intero triennio.

In particolare a soffrire è il I semestre del I anno, che ormai è ridotto a un bimestre e per non pochi studenti è addirittura sospeso perché essi, a causa della demenziale organizzazione del test d’ingresso, vi sono ammessi quando è già concluso.

Non scendo nei dettagli tecnici di questa situazione paradossale, perché oltre che complessi essi sono talmente assurdi da suscitare sentimenti di sconforto se non proprio d’ira verso chi li ha sciaguratamente promossi e ora non li sa correggere. Mi limito a segnalare che un semestre così sensibile per chi accede per la prima volta alla Facoltà di Medicina, del tutto ignaro dei meccanismi dell’insegnamento universitario, di fatto quasi non esiste più.

Perciò si va creando un contenzioso di studenti che iniziano il loro percorso cognitivo in un modo a dir poco rocambolesco e comunque non certamente idoneo a propiziare un percorso ottimale, alla faccia del detto che “chi ben comincia è a metà dell’opera”.

 

Un esempio locale può ben illustrare questa situazione che peraltro altrove è talora ancor più disastrosa: lezioni ridotte numericamente (quando la conoscenza tende ad aumentare in modo vertiginoso), svolte in un arco temporale assai ristretto (del tutto inadeguato a far maturare le conoscenze acquisite), per di più nelle ore pomeridiane (così sottratte allo studio individuale) e a tappe forzate anche di tre ore consecutive (impossibili da sostenere per il docente e impossibili da seguire per il discente). E tutto ciò nonostante la presidenza del corso di laurea sia affidata, lo so per conoscenza personale, a un docente molto attivo, molto attento e molto consapevole, ma evidentemente vittima di una invincibile burocrazia mostruosa e sorda.

Rimane il fatto che il risultato è questo: discipline formative e dalla forte valenza propedeutica si stendono sugli studenti di Medicina come può farlo un forte acquazzone, che dà fastidio e poi scorre via, senza permeare il suolo.

E non è finita, perché il triennio propedeutico, stando ai ‘si dice’, verrà ulteriormente eroso. Per cui è logico attendersi che si produrranno sempre più medici privi della cultura di base utile a ricevere le conoscenze specialistiche e che pertanto, a lungo andare, si laureeranno medici sempre più equivalenti a bandierine scosse e disarticolate, perché infisse in un territorio incapace di sostenerle e di raccordarle.

Proprio quando il nuovo paradigma scientifico, nato dal pensiero sistemico, insegna che la realtà non è fatta di nodi isolati, quanto piuttosto dalla totalità dei nodi riuniti nella rete che nasce dalle loro infinite connessioni, sostenute da un flusso di energia.

Che nel caso specifico è, per l’appunto, la cultura di base.

 

In sostanza, di questo passo avremo una Medicina equivalente a una ragnatela con tanti ragni incapaci di tesserla e poi di sostenerla. Vale a dire, avremo tanti medici assolutamente competenti circa un pezzetto di patologia, a ciascuno il suo, ma del tutto smarriti in un labirinto – l’uomo intero – dove al più essi si potranno rincorrere l’un l’altro, nella disperata condizione di chi pensa che sia sufficiente muoversi per giungere a destinazione. Quando invece non è così, perché la loro è una danza che si avvita su se stessa, priva com’è di una scrittura che indichi la melodia, cioè il “principio generale”, l’archè, che soggiace immutato al cambiamento, sostenendolo.

 

Se si vuole evitare questo dramma epocale che rischia di travolgere la Medicina riducendola, da arte quale è, a lavoro artigianale di basso profilo, si deve quanto prima ristabilire il primato della cultura sul nozionismo e il primato dell’intero sul particolare.

Per farlo,

gli organismi centrali che fanno capo al Ministero della Pubblica Istruzione escano dalla bolla astratta nella quale si sono rinchiusi per indolenza e per insipienza;

gli organismi periferici che fanno capo ai rettori delle università cessino di essere supini, seppure per necessità, a direttive assurde;

i docenti smettano l’abito della convenienza e ritornino in campo con la dignità e la forza del sapere didattico;

gli studenti sappiano che non esistono solo le briciole, ma anche i pani interi, anche se a masticarli si fa più fatica;

i medici ritornino a considerare l’uomo un “tutto” con il suo ambiente;

i malati smettano di chiedere il superfluo e si accontentino del necessario;

i sani si rendano conto che lo stato di salute è una loro responsabilità.

 

Ministri, rettori, docenti, studenti, medici, malati e sani: è chiedere troppo?

NO!

Se si capisce che si è tutti dentro una rete che non ha una gerarchia verticistica, ma una gerarchia diffusa, auto-organizzata.

Dove ognuno può e deve fare la sua parte, in un contesto ricorsivo e causale, sostenuto dall’energia del sapere.

Pena la disarticolazione e con essa, se non proprio la morte, certamente l’inutilità.

Purtroppo incipriata, al punto da apparire utilità.

 

Prof. Renato Scandroglio

(renato.scandroglio@gmail.com)

Qualche parola sull’insegnamento della Medicina

Svolgo ancora oggi, dopo essere stato per molti anni direttore, in Parma, dell’Istituto di Istologia della Facoltà di Medicina, un seminario agli studenti del I anno incentrato sulla biologia dello sviluppo. Per il resto sono totalmente estraneo alle dinamiche della Facoltà. Mi trovo quindi nella felice condizione di poter esprimere un giudizio libero e capace di cogliere i mutamenti perché affrancato sia da interessi personali, sia da quella sorta di sopore che nasce dal coinvolgimento rutinario.

Aggiungo che tuttora svolgo un’attività medica in qualità di ginecologo libero professionista, per cui ho ben presente anche gli aspetti pratici della professione.

 

Ebbene, la mia esperienza è a dir poco sconvolgente perché di anno in anno vedo sempre più precipitare l’attenzione e l’interesse per le discipline biomediche formative, quali l’istologia, la biochimica, l’anatomia e la fisiologia, che infatti oggi sono fortemente erose nei tempi e nella consistenza essendo confinate in poco più di due anni di corso, quando fino a non molti anni fa occupavano un intero triennio.

In particolare a soffrire è il I semestre del I anno, che ormai è ridotto a un bimestre e per non pochi studenti è addirittura sospeso perché essi, a causa della demenziale organizzazione del test d’ingresso, vi sono ammessi quando è già concluso.

Non scendo nei dettagli tecnici di questa situazione paradossale, perché oltre che complessi essi sono talmente assurdi da suscitare sentimenti di sconforto se non proprio d’ira verso chi li ha sciaguratamente promossi e ora non li sa correggere. Mi limito a segnalare che un semestre così sensibile per chi accede per la prima volta alla Facoltà di Medicina, del tutto ignaro dei meccanismi dell’insegnamento universitario, di fatto quasi non esiste più.

Perciò si va creando un contenzioso di studenti che iniziano il loro percorso cognitivo in un modo a dir poco rocambolesco e comunque non certamente idoneo a propiziare un percorso ottimale, alla faccia del detto che “chi ben comincia è a metà dell’opera”.

 

Un esempio locale può ben illustrare questa situazione che peraltro altrove è talora ancor più disastrosa: lezioni ridotte numericamente (quando la conoscenza tende ad aumentare in modo vertiginoso), svolte in un arco temporale assai ristretto (del tutto inadeguato a far maturare le conoscenze acquisite), per di più nelle ore pomeridiane (così sottratte allo studio individuale) e a tappe forzate anche di tre ore consecutive (impossibili da sostenere per il docente e impossibili da seguire per il discente). E tutto ciò nonostante la presidenza del corso di laurea sia affidata, lo so per conoscenza personale, a un docente molto attivo, molto attento e molto consapevole, ma evidentemente vittima di una invincibile burocrazia mostruosa e sorda.

Rimane il fatto che il risultato è questo: discipline formative e dalla forte valenza propedeutica si stendono sugli studenti di Medicina come può farlo un forte acquazzone, che dà fastidio e poi scorre via, senza permeare il suolo.

E non è finita, perché il triennio propedeutico, stando ai ‘si dice’, verrà ulteriormente eroso. Per cui è logico attendersi che si produrranno sempre più medici privi della cultura di base utile a ricevere le conoscenze specialistiche e che pertanto, a lungo andare, si laureeranno medici sempre più equivalenti a bandierine scosse e disarticolate, perché infisse in un territorio incapace di sostenerle e di raccordarle.

Proprio quando il nuovo paradigma scientifico, nato dal pensiero sistemico, insegna che la realtà non è fatta di nodi isolati, quanto piuttosto dalla totalità dei nodi riuniti nella rete che nasce dalle loro infinite connessioni, sostenute da un flusso di energia.

Che nel caso specifico è, per l’appunto, la cultura di base.

 

In sostanza, di questo passo avremo una Medicina equivalente a una ragnatela con tanti ragni incapaci di tesserla e poi di sostenerla. Vale a dire, avremo tanti medici assolutamente competenti circa un pezzetto di patologia, a ciascuno il suo, ma del tutto smarriti in un labirinto – l’uomo intero – dove al più essi si potranno rincorrere l’un l’altro, nella disperata condizione di chi pensa che sia sufficiente muoversi per giungere a destinazione. Quando invece non è così, perché la loro è una danza che si avvita su se stessa, priva com’è di una scrittura che indichi la melodia, cioè il “principio generale”, l’archè, che soggiace immutato al cambiamento, sostenendolo.

 

Se si vuole evitare questo dramma epocale che rischia di travolgere la Medicina riducendola, da arte quale è, a lavoro artigianale di basso profilo, si deve quanto prima ristabilire il primato della cultura sul nozionismo e il primato dell’intero sul particolare.

Per farlo,

gli organismi centrali che fanno capo al Ministero della Pubblica Istruzione escano dalla bolla astratta nella quale si sono rinchiusi per indolenza e per insipienza;

gli organismi periferici che fanno capo ai rettori delle università cessino di essere supini, seppure per necessità, a direttive assurde;

i docenti smettano l’abito della convenienza e ritornino in campo con la dignità e la forza del sapere didattico;

gli studenti sappiano che non esistono solo le briciole, ma anche i pani interi, anche se a masticarli si fa più fatica;

i medici ritornino a considerare l’uomo un “tutto” con il suo ambiente;

i malati smettano di chiedere il superfluo e si accontentino del necessario;

i sani si rendano conto che lo stato di salute è una loro responsabilità.

 

Ministri, rettori, docenti, studenti, medici, malati e sani: è chiedere troppo?

NO!

Se si capisce che si è tutti dentro una rete che non ha una gerarchia verticistica, ma una gerarchia diffusa, auto-organizzata.

Dove ognuno può e deve fare la sua parte, in un contesto ricorsivo e causale, sostenuto dall’energia del sapere.

Pena la disarticolazione e con essa, se non proprio la morte, certamente l’inutilità.

Purtroppo incipriata, al punto da apparire utilità.

 

Prof. Renato Scandroglio

 

(renato.scandroglio@gmail.com)

 

Tre artisti giapponesi a Milano

Segnaliamo, ancora per poco più di un mese, a Palazzo Reale  la mostra dedicata a Hokusai, Hiroshige e Utamaro, tre artisti giapponesi attivi tra la fine del Settecento e metà dell’Ottocento.

Sono esposte circa 200 xilografie policrome (incisioni su tavole di legno, successivamente inchiostrate e stampate su carta o seta con il torchio).

La tecnica della xilografia giapponese è un esempio unico per la scelta dei legni di base, dei colori ad acqua e carta fatta a mano.

Componenti che hanno permesso una gamma molto ampia di trasparenze nei colori e che connotano la differenza di stile tra le incisioni occidentali e quelle estremo-orientali.

Hokusai (1760-1849) è l’artista più conosciuto in Occidente, la sua opera è caratterizzata da paesaggi fantastici rispetto alle figure umane, sua è “La grande onda” manifesto della mostra.

Hiroshige (1797-1858) altro grande paesaggista, anche se forse è un po’ semplicistico definirlo così, poiché la sua è una contemplazione della natura e il conseguente sentimento umano che ne scaturisce è riflesso nelle sue opere.

È autore delle “100 vedute famose di Edo”, ma ritrae anche attori, guerrieri e cortigiane.

Utamaro (1753-1806) è l’artista che si dedicherà all’universo femminile in tutte le sue sfaccettature: la vita quotidiana, il lavoro e l’aspetto più intimo delle donne.

 

Anche questa mostra fa parte delle manifestazioni che si sono tenute lungo tutto l’arco del 2016, in cui si è celebrato il 150° anniversario delle relazioni tra Italia e Giappone con la stipula del primo Trattato di Amicizia e Commercio firmato il 25 agosto 1866 tra i due paesi, che diede inizio ai reciproci rapporti diplomatici.

 

 

 

… riflessioni e considerazioni sulla natura…

1 d

Il pensiero sistemico

 

Il pensiero sistemico è emerso simultaneamente in molte discipline nella prima metà del secolo scorso, in particolare in ambito biologico quando i biologi organicistici – rifacendosi alla fisica quantistica e alla psicologia della Gestalt – introdussero, seguiti poi da biochimici, filosofi, medici ed ecologisti, la concezione secondo la quale gli organismi viventi sono complessi integrati per i quali la forma, intesa come schema e qualità, è altrettanto importante della sostanza, intesa come struttura e quantità.

Il biologo Ross Harrison (1870-1959) segnala per primo il concetto di organizzazione spostando la visione dal “processo” – come prodotto meccanicistico della “sostanza” – alla “forma” – come prodotto immanente dello “schema” – e identificando nella configurazione e nella relazione due aspetti fondamentali della realtà.

Il biochimico Lawrence Henderson (1878-1942) introduce per tale visione il termine sistema (dal greco: porre insieme), che da allora ha assunto il significato di un “tutto integrato”, un intero le cui proprietà essenziali derivano dalle relazioni ricorsive fra le parti costituenti, proprio come emerge dalla meccanica quantistica, mentre il “pensiero sistemico” ha assunto il significato di “comprensione della necessità di stabilire la natura delle relazioni”.

Il biologo Joseph Woodger (1894-1981) riprende il concetto sistemico di “schema”, ormai delineato, affermando che si può dare una descrizione completa degli organismi nei termini degli elementi chimici che li compongono, “più” le relazioni organizzanti, ponendo così fine al dibattito fra meccanicisti e vitalisti.

Innescando però, seppure involontariamente, un dibattito sulla natura gerarchica dell’organizzazione degli organismi viventi.

A questo dibattito pone fine ben presto il filosofo C.D. Broad (1887-1971) con l’introduzione del concetto di proprietà emergente, intesa come la proprietà che emerge ai vari livelli di un sistema, configurando la presenza di una gerarchia che però non è verticistica,

come la si intende quando è riferita all’organizzazione sociale, ma distribuita, quindi di fatto equivalente, si direbbe oggi, a una condizione “fatta più per servire che per comandare”.

Il medico russo Aleksandr Bogdanov (1873-1928) nel contempo – seppur ignorato dalla scienza ufficiale occidentale e precedendo il Bertalanffy che giungerà alle stesse conclusioni venti anni dopo – formula una scienza universale dell’organizzazione distinguendo tre tipi di sistemi:

sistemi organizzati, dove tutto è maggiore della somma delle sue parti

sistemi disorganizzati, dove tutto è minore della somma delle sue parti

sistemi neutri, dove le attività di organizzazione e di disorganizzazione si annullano a vicenda.

Il filosofo Arne Næss (1912-2009) dal canto suo allarga il pensiero sistemico, estendendolo all’ambiente e utilizzando il termine ecologico (da ecologia, termine introdotto nel 1866 dal biologo tedesco Ernst Haecker per indicare la scienza delle relazioni fra organismo e mondo esterno circostante) anziché il termine olistico, ormai comunemente utilizzato per indicare un insieme di parti in relazione fra loro, quando fosse riferito ai viventi, per cui la cellula è una realtà “ecologica” e non semplicemente “olistica”.

Secondo il suo pensiero, olistico definisce un’entità completa e funzionante, espressiva di una interdipendenza delle parti costituenti, come può essere quella di una comune macchina, mentre ecologico aggiunge a quest’idea di completezza e di interdipendenza anche la percezione di come un’entità si colloca nel suo ambiente naturale, specificando per esempio: da dove provengono le materie prime che compongono la macchina, come è stata costruita, quanto la sua utilizzazione influisce sull’ambiente e sulla comunità che la utilizza.

Inoltre distingue l’ecologia in:

superficiale, antropocentrica, che considera gli esseri umani al di sopra o al di fuori della natura come fonte di tutti i valori, in linea con la tradizione meccanicistica

e in

profonda e vera che non separa gli esseri umani né ogni altra cosa dall’ambiente naturale e che considera gli uomini semplicemente come un filo particolare nella trama retiforme della vita.

Infine arricchisce le nascenti concezioni sistemiche con l’introduzione – accanto al concetto di comunità, inteso come insieme di parti integrate – dell’immagine di rete, intesa come l’espressione formale dell’integrazione delle parti.

Un’immagine che i sistemici sposano immediatamente, giungendo ben presto a considerare gli organismi viventi come “reti di cellule”, a loro volta considerate come “reti di reti”.

Un network dove ogni nodo rappresenta un organismo,

che è una rete con nodi che rappresentano un apparato,

che è una rete con nodi che rappresentano i tessuti,

che sono nodi che rappresentano le cellule,

che sono nodi che rappresentano gli apparati cellulari,

con nodi che rappresentano gli organi cellulari,

con nodi che rappresentano le macromolecole e così via, fino alla realtà quantistica dell’uomo.

Poiché in natura ci sono reti dentro altre reti.

È una visione che il biologo Ludwig von Bertalanffy (1901-1972) consacra nel 1950 dandogli una definitiva cornice con il suo articolo su Science: “The Theory of Open Systems in Physics and Biology”, nel quale si fa interprete e paladino di una “scienza generale della totalità” riguardante tutti i sistemi indipendentemente dalla loro natura.

Dettando i seguenti principi:

– i sistemi sono totalità integrante di parti in relazione ricorsiva le cui proprietà non possono

essere ricondotte a quelle delle singole parti

– il mondo è fatto di sistemi inseriti dentro altri sistemi, ciascuno dei quali ha una complessità

variabile, motivo per il quale a ciascun livello i fenomeni osservati mostrano proprietà

specifiche non confrontabili con quelle degli altri livelli

– la natura è una trama interconnessa di relazioni che non può essere compresa mediante lo

studio analitico delle singole parti, ma mediante la visione olistica delle parti inserite nel

loro contesto.

Sono principi che consacrano il pensiero sistemico come un pensiero contestuale. Cioè come un pensiero che, comprendendo anche l’ambiente è, di fatto, un “pensiero ecologico”.

Oggi peraltro coinvolto nella teoria della complessità, che cerca di capire come i milioni di parti di un sistema si organizzino in una rete di interazioni causali producendo non esiti certi, ma comportamenti complessivi ancora indecifrabili nella loro dinamica, al punto che i termini sistema, rete, complessità sono da considerarsi sinonimi.

 

Prof. Renato Scandroglio

piùlibripiùliberi a Roma

Si apre il 7 dicembre e si conclude l’11 la bella fiera dedicata alla piccola e media editoria italiana. Questa è la quindicesima edizione e negli anni è diventata sempre più importante e ricca di iniziative ed eventi.

Sono presenti anche case editrici piccolissime, espongono qui i loro libri che difficilmente potrebbero trovare posto nelle librerie.

Sono editori indipendenti che curano i libri non solo nel contenuto, ma con passione anche nella veste grafica, coccolando i lettori con creatività, curiosità, nell’intento di trasmettere il loro impegno culturale.

La manifestazione è nel Palazzo dei Congressi dell’Eur, ci si arriva facilmente con la metropolitana direttamente dalla stazione Termini, è un viaggio fattibile in giornata anche per chi non è di Roma e la fiera è così colma di interesse che non può destare delusioni.

Si torna a casa con libri, perché è impossibile uscire senza, con la voglia di cominciare subito a leggerli e con la consapevolezza che le persone, gli incontri con gli autori, il clima allegro che si respira siano una vera boccata di ossigeno.

La cultura ci fa bene fisicamente e spiritualmente e piùlibripiùliberi contribuisce ogni anno con le sue iniziative all’interno e all’esterno della fiera.

Sul nuovo sito ufficiale sono ben descritte tutte le giornate… facciamoci un pensierino.